Vivere all’estero ti apre la mente, viene spesso ripetuto. Ti consente di acquisire nuove conoscenze, di guardare alle cose con una prospettiva diversa, di verificare il funzionamento di certi meccanismi che potrebbero essere replicati anche nel proprio contesto di provenienza. La mia esperienza non fa eccezione.
Da quando sono arrivato in Inghilterra, ormai nel 2014, ho potuto constatare l’importanza endemica che riveste lo sport nella società inglese. E non si tratta soltanto della presenza della Premier League, o della rilevanza assunta da altri sport che in Italia sarebbero considerati minori, come il rugby e il cricket. Non si tratta neppure dell’enorme fioritura di dipartimenti universitari dedicati allo sport: io stesso lavoro in una “School of Sport”, che comprende la divisione sport science, la divisione sport coaching, e la divisione sport management. Si tratta di una centralità attribuita allo sport nello sviluppo fisico e sociale della persona fin dalla tenera età.
Ancora quest’anno, dopo ormai otto anni in Terra d’Albione, sono stato stupito dal fatto che il figlio di due colleghi, età sei anni, pratichi regolarmente due sport: uno, il calcio, diffusissimo; l’altro, hockey su ghiaccio, assai meno diffuso. E con praticare regolarmente intendo un allenamento a settimana per ciascuno sport, più partita di calcio il sabato mattina e partita di hockey la domenica. Questo si aggiunge alle due ore di educazione fisica settimanali praticate fin dalle scuole elementari, dove educazione fisica viene intesa in senso letterale: agli studenti viene insegnato a giocare a calcio, rugby, cricket e altri sport. Con il risultato che, fin da piccoli, gli Inglesi vengono a contatto con almeno 4-5 sport diversi, ne imparano le regole, imparano ad apprezzarli. Questo contribuisce a maggiori opportunità di socializzazione, laddove i bambini entrano in contatto con gruppi diversi di coetanei, e ad una maggiore seguito per sport diversi dal calcio anche quando i bambini saranno diventati adulti. Una differenza enorme rispetto all’Italia, dove i bambini tendono a praticare un solo sport alla volta, e il calcio tende a monopolizzare l’attenzione.
Pertanto, una visione nuova dello sport parte da una cultura nuova dello sport, che ne valorizzi l’aspetto sociale ed educativo e non si limiti alla divinizzazione del calcio, ma promuova tutti gli sport. Questa cultura nuova porterebbe ad enormi benefici anche e soprattutto nelle piccole città. Ne rafforzerebbe il tessuto sociale e il senso di comunità, grazie alle maggiori opportunità di socializzazione derivanti dalla pratica di sport diversi, non solo per i bambini, ma per gli stessi genitori. Condurrebbe all’emergere di un maggior numero di specializzazioni territoriali di eccellenza (tipo la famosa scuola di scherma di Jesi), che non coinvolga necessariamente gli sport di massa, e ad un aumento dell’occupazione, in virtù del maggior numero di coach e formatori richiesto per la pratica dei diversi tipi di sport, ed in generale del maggior numero di società sportive. Determinerebbe un approccio nuovo anche alla gestione dell’attività senior, laddove troppe risorse sono spese in categorie dilettantistiche o semi-professionistiche con il solo obiettivo di vincere campionati rivolgendosi ad atleti non locali, mentre troppo poco viene fatto per consentire agli atleti locali di continuare l’attività sportiva al fine di renderla una vera e propria attività professionale o semplicemente di combinarla con l’attività lavorativa principale.
Questo approccio potrebbe essere traslato anche alle società professionistiche, che avrebbero un maggiore bacino di atleti da sviluppare nei propri settori giovanili e portare nelle prime squadre, con inevitabili benefici dal punto di vista economico finanziario derivanti dalla minore necessità di spendere per acquisire atleti da altre società e dalla possibilità di rivendere a società più importanti i talenti migliori formati in casa, rientrando dell’investimento iniziale fatto appunto per la formazione dell’atleta. Ma – di nuovo – anche dal punto di vista del rapporto con la comunità, che si sentirebbe inevitabilmente ancora più legata ad una società che tende a valorizzare il talento locale.
Il sì del Senato all’introduzione di un nuovo comma dell’articolo 33 della Costituzione, secondo cui “La Repubblica riconosce il valore educativo, sociale e di promozione del benessere psicofisico dell’attività sportiva in tutte le sue forme”, è soltanto un primo passo nella direzione di questa nuova cultura dello sport. Tanto ancora bisogna fare, perché cambiare la cultura di un Paese – anche se relativamente ad un singolo ambito come quello dello sport – è un percorso lungo e difficile. Che però porterebbe ad indubbi benefici, specialmente nei piccoli centri.